La rendicontazione di sostenibilità ESG lungo la “catena del valore” delle imprese e le regole sulla tassonomia ambientale.
La dimensione internazionale del nuovo quadro normativo dell’UE.
Avv. Francesco Maria di Majo – Bridgelaw partner
Nell’articolo dell’avv. Francesco Maria di Majo, pubblicato sulla Rivista di Diritto del Commercio Internazionale, vengo esaminate in modo sistematico e completo i recenti atti dell’UE ( regolamenti, direttive e regolamenti delegati o di esecuzione ) volti a rafforzare la sostenibilità delle imprese e ad evitare pratiche di greenwashing...
attraverso l’adozione di standard comuni per la rendicontazione della sostenibilità e criteri comuni per valutare se le attività economiche forniscono un contributo al raggiungimento di uno o più dei sei obiettivi ambientali che sono stati identificati nell’ambito del regime della “Tassonomia” ambientale (segnatamente la mitigazione del cambiamento climatico; l’adattamento al cambiamento climatico; l’uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; la transizione verso l’economia circolare; la prevenzione e controllo dell’inquinamento; la protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi).
I principali atti dell'UE esaminati in questo articolo sono la Direttiva (UE) 2022/2464 sulla rendicontazione della sostenibilità delle imprese (CSRD) con riguardo ai fattori ambientali, di governance, sociali e dei diritti umani (ESG); il Regolamento UE 2020/852 sulla Tassonomia e i suoi Regolamenti delegati (2021-2023), a cui la CSRD fa riferimento per la valutazione ambientale. Tutti questi atti derivano dagli impegni assunti dall'UE con l'Accordo di Parigi del 2015 e mirano a incanalare gli investimenti privati in attività sostenibili.
In questo articolo, attraverso una lettura integrata tra la CSRD e il regolamento sulla Tassonomia (atti tra loro, seppur non espressamente, collegati), vengono forniti alle imprese alcuni strumenti di lettura in merito alla dimensione internazionale delle disposizioni di queste normative europee. Alla base della CSRD e dei criteri di rendicontazione europei di cui al Regolamento Delegato (UE) 2023/2772 (European Sustainability Reporting Standards) vi è, infatti, l’obbligo per le grandi imprese (a cui si applica la CSRD), in sede di rendicontazione di sostenibilità, di affrontare l’impatto dei fattori ESG non solo rispetto alle proprie attività ma anche rispetto alle proprie filiali e ai partner commerciali lungo l’intera catena del valore (“value chain”), a monte e a valle, che potrebbe estendersi al di fuori dell’Unione Europea. Tale catena comprende l'approvvigionamento, la fabbricazione, il trasporto, lo stoccaggio e la fornitura di materie prime ma anche la consegna e il consumo di prodotti.
Le imprese dell’UE di grandi dimensioni (con più di 250 dipendenti ed un fatturato netto di 50 milioni di euro o uno stato patrimoniale superiore a 25 milioni di euro) saranno tenute a presentare, a partire dal prossimo bilancio 2025, la predetta analisi di impatto all’interno della “relazione sulla gestione” (redatta dagli amministratori ai sensi dell’art. 2428 cc) che fa parte integrante del bilancio o del bilancio consolidato del gruppo (quindi comprensivo anche delle attività delle filiali all’estero). La CSRD rafforza, inoltre, il regime sanzionatorio nei confronti dei revisori contabili rispetto ad irregolarità da loro commesse nell’attestazione di conformità della predetta rendicontazione o bilancio di sostenibilità.
Nell’articolo dell’avv. di Majo vengono evidenziati le ripercussioni che potrà avere la CSRD, sempre in combinato disposto con le regole della Tassonomia, in tema di rafforzamento della tutela degli interessi di coloro che hanno acquistato prodotti e/o servizi (anche finanziari) da un’impresa che abbia presentato un “bilancio di sostenibilità” contenente dati inesatti o non veritieri circa gli obiettivi ambientali (anche in termini di riduzione di CO2) raggiunti. Se poi gli stessi prodotti e/o servizi dell’impresa vengono presentati come “eco-friendly” senza in realtà esserlo, dando così luogo a pratiche di “greenwashing”, sussiste, già oggi, il rischio per l’impresa di essere sanzionata dalle Autorità antitrust o anche di essere condannata al risarcimento di danni nell’ambito di giudizi civili avviati dai consumatori o da loro associazioni.
La predisposizione del bilancio di sostenibilità sulla base degli standards comuni indicati dagli ESRS, accrescerà quindi per le imprese il rischio di essere esposte ad azioni (dei singoli o dell’antitrust), per aver fornito (anche involontariamente) informazioni non corrette sull’impatto rispetto ai fattori ESG dell’intera catena del valore che comprende le attività delle proprie filiali e dei partners commerciali dell’impresa che si possono trovare in paesi terzi.
Nell’articolo vengono, a tale riguardo, indicati alcuni strumenti e metodologie che possono essere impiegati dalle imprese per non incorrere in tali rischi. Tra questi lo strumento certamente più sicuro è il ricorso, rispetto alle attività e servizi svolti, ad affidabili certificazioni ambientali (effettuate anche rispetto alle attività ed investimenti realizzati dalle filiali all’estero) che siano basate su dati verificabili e che siano tecnicamente e scientificamente solidi (oppure facendo ricorso alle “garanzie d’origine” dell’energia rinnovabile prodotta).
L’articolo dell’avv. di Majo esamina, altresì, la Direttiva relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità che è stata nel frattempo, il 24 maggio 2024, adottata dall’UE (Corporate Sustainability Due Diligence Directive – CSDDD).
Il monitoraggio della catena del valore rispetto ai fattori ESG che le grandi imprese sono già ora tenute ad osservare in virtù della CSRD - da cui può discendere una loro responsabilità ma solo se vi è stata una rappresentazione ingannevole o nel caso di mancato rispetto dei criteri ESRS nella redazione del bilancio di sostenibilità - assumerà, con l’applicazione della CSDDD una connotazione più sostanziale che va al di dei meri obblighi informativi di cui alla CSRD.
La CSDDD introduce, infatti, a partire dal 2029 e per le imprese con un numero di dipendenti superiore a 1.000 ed un fatturato netto mondiale superiore a 450 milioni di Euro, un obbligo per tali imprese di adottare misure adeguate per prevenire, mitigare, far cessare o ridurre al minimo gli impatti negativi derivanti dalle loro attività nonché delle loro filiali e partner commerciali sui diritti umani e sull’ambiente, lungo l’intera catena del valore.
A tale fine le imprese dovranno integrare la due diligence ambientale e sul rispetto dei diritti umani nelle loro politiche aziendali ovvero nei sistemi di gestione dei rischi. Inoltre, le imprese saranno obbligate (nella CSRD è ancora una facoltà) ad adottare ed attuare un piano di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici.
La verifica di tali obblighi sarà devoluta ad un’autorità indipendente che potrà anche irrogare sanzioni all’impresa.
La CSDDD prevede anche un regime di private enforcement ovvero di responsabilità civile delle imprese e del correlato diritto al risarcimento danni da parte di persone fisiche o giuridiche che subiscano un danno ai loro interessi giuridici “tutelati dal diritto nazionale”, art. 29, par.1, lett. b) della CSDDD (trattasi in particolare dei danni alla salute o ai beni di una persona). Il diritto al risarcimento potrà nascere solo in presenza delle condizioni previste in tema di responsabilità extracontrattuale nei diritti nazionali e qualora il danno sia derivato dalla violazione da parte dell’impresa di un obbligo, divieto o diritto indicato in una della Convenzioni internazionali contemplate nell’allegato alla CSDDD, inteso a tutelare anche gli interessi della persona fisica o giuridica danneggiata.
L’applicazione pratica di tale regime di private enforcement appare sin da ora molto ridotta, almeno rispetto alla tutela dell’ambiente, nella misura in cui è difficile individuare, nelle predette Convenzioni internazionali, diritti ed obblighi che “mirino a proteggere” le persone fisiche o giuridiche danneggiate. Tale scenario potrà forse mutare laddove gli Stati membri, in sede di recepimento della CSDDD, riconosceranno la legittimità ad agire da parte delle ONG in rappresentanza di soggetti che si ritengono – potenzialmente - lesi da un inquinamento diffuso, senza che sia richiesta la concreta prova di un danno da loro subito alla loro salute o ai beni di loro proprietà (ad esempio dall’abusivo scarico in mare di idrocarburi contemplato dalla Convenzione Marpol 73/78, citata nell’Allegato della CSDDD).